Inclusione Sociale

Negli ultimi decenni, chi si è trovato ad operare all’interno del mondo della disabilità ha assistito al cambio di diverse parole d’ordine. Ognuna di esse ha simboleggiato il modo con cui si definivano le persone interessate (handicappate, diversamente abili, persone con disabilità) o il pensiero teorico ed operativo che muoveva le politiche e le azioni a favore delle persone. Così se negli anni ’70 la parola d’ordine era inserimento, alla fine degli anni ’80 si è passati a integrazione. Dall’avvento della alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità approvata nel 2006, abbiamo assistito ad un nuovo cambiamento: la nuova parola d’ordine è diventata inclusione.

Inizialmente questa scelta ha lasciato un po’ sconcertati, per il fatto che essa sembrava rappresentare un passo indietro rispetto al concetto di integrazione o forse perché richiamava la vecchia parola inserimento. Solo un’analisi attenta del concetto che essa rappresenta ha permesso di cogliere le potenzialità e la forza di questo cambio di prospettiva: essa riguarda tutte le persone e la condizione umana, la quale a sua volta può presentare difficoltà di vita e situazioni di disabilità. Il concetto di inclusione conduce al riconoscimento di un diritto come forma di contrasto al suo opposto: l’esclusione. Porta ad affermare che le strategie e le azioni da promuovere devono tendere a rimuovere quelle forme di esclusione sociale di cui le persone con disabilità soffrono nella loro vita quotidiana: l'esperienza scolastica spesso vissuta ai margini della classe e non sempre supportata adeguatamente, l’abbandono scolastico, il mancato apprendimento di competenze sociali e di vita, l'esclusione dal mondo del lavoro, le esperienze affettive spesso relegate all’ambiente famigliare, una scarsa partecipazione alle attività sociali e di tempo libero.

Percorrere le strade dell’inclusione sociale significa sostanzialmente porre la questione della disabilità nella dimensione sociale del diritto di cittadinanza, perché riguarda tutti coloro che partecipano alla vita sociale all’interno di un determinato contesto: includere vuol dire offrire l’opportunità di essere cittadini a tutti gli effetti. Ciò non significa negare il fatto che ognuno di noi è diverso o negare la presenza di disabilità o menomazioni che devono essere trattate in maniera adeguata, ma vuol dire spostare i focus di analisi e intervento dalla persona ai contesti, per individuarne gli ostacoli e operare per la loro rimozione.

Il fine è promuovere la qualità di vita, anche attraverso un sistema di relazioni soddisfacenti nei riguardi di persone che presentano difficoltà nella propria autonomia personale e sociale, in modo che esse possano sentirsi parte di comunità e  contesti relazionali dove poter agire, scegliere, giocare e vedere riconosciuto il proprio ruolo e la propria identità. È evidente che ciò richiede - in primis da parte delle istituzioni, delle diverse realtà e degli operatori che si occupano di disabilità – lo sforzo di acquisire un pensiero e un approccio mentale aperto al cambiamento e al superamento di un’ottica d’intervento centrata sulla relazione duale operatore/utente.

Il movimento delle persone con disabilità, abbandonando la strategia basata su obiettivi parziali (più servizi, più denaro per le pensioni e l’assistenza, ecc.) per impostare una nuova strategia basata sui diritti umani (uguaglianza, rispetto della dignità, non discriminazione, pari opportunità, coinvolgimento nelle scelte) ha ottenuto uno straordinario risultato: l’approvazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (New York – 13 dicembre 2006), ratificata nel 2009 anche dall’Italia. Agire per la tutela dei diritti umani delle persone con disabilità significa considerare la disabilità non come una malattia (modello medico), ma come un rapporto sociale tra le caratteristiche delle persone e l’ambiente (modello bio-psico-sociale). Un modo di pensare sancito prima dall’OMS e poi dall’ONU nell’ art. 3 della Convenzione, dove tra i principi generali viene posta “la piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società”.
Un modo di pensare che l’ANFFAS e le realtà ad essa collegate, come la cooperativa Radici nel Fiume, hanno posto alla base del proprio agire. Promuovere l’inclusione significa quindi lavorare per cambiare le regole del gioco e far sì che ogni persona, indipendentemente dalla propria condizione, non subisca trattamenti differenti e degradanti, non viva o lavori in luoghi separati ma abbia le medesime opportunità di partecipazione e coinvolgimento nelle scelte che la riguardano. Significa agire nei confronti della società e dei territori per renderli inclusivi, cioè capaci di dare concretezza - modificandosi quando è necessario - al diritto di cittadinanza di tutte le persone, indipendentemente dalla loro condizione.

Per noi, fare azione nel territorio significa essere soggetti del cambiamento culturale e sociale, acquisendo un ruolo che sappia trasformarci in punto di riferimento non solo per le persone di cui ci prendiamo cura o le famiglie socie, ma anche per altre realtà, servizi, operatori, cittadini, costruendo e mantenendo reti di raccordo e se necessario di coordinamento. Agire sulla società e fare azione nel territorio implica la necessità di ampliare l’attenzione dalla dimensione dell’individuo (livello micro) - per intenderci quelli sottesi agli approcci clinici e riabilitativi che caratterizzano la maggior parte dei servizi alle persone con disabilità presenti sul territorio nazionale - a quella dei sistemi relazionali in cui ogni individuo è immerso (livello macro).

Per ampliare la nostra attenzione, occorre far proprio un approccio che consideri il fatto che prendersi cura di qualcuno – nel nostro caso la persona con disabilità - significa comprendere quanto l’ambiente sociale in cui si opera, le modalità per descrivere le situazioni e definire cosa è il problema, la qualità dei processi comunicativi, le aspettative e le risposte ad esse formulate, le rappresentazioni individuali e sociali, siano tutte determinanti nel costruire esclusione e disagio piuttosto che inclusione e benessere e pertanto acquisire consapevolezza che occorre agire anche su questi versanti. È una sorta di rovesciamento di paradigma: occorre curare il territorio per curare e far star bene le persone, andando oltre l’erogazione dei servizi alla persona.

Ciò non è semplice e richiede non solo una capacità di visione che sappia uscire dal proprio micro-cosmo ma anche la consapevolezza che si tratta di un percorso non breve e che richiede energie e risorse. Significa andare oltre l’erogazione dei servizi alla persona per assumere un ruolo di responsabilità all’interno di possibili processi inclusivi, con il fine ultimo di rendere la realtà della disabilità una delle tante che interagisce con altre realtà. Garantire la professionalità all’interno dei servizi, deve risultare quindi il punto di partenza e non di arrivo. È il livello minimo da garantire per andare oltre l’erogazione di servizi e promuovere percorsi che consentano un reale miglioramento nella qualità di vita delle persone con disabilità e delle loro famiglie. È ciò che permette il passaggio da una visione di risposta parcellizzata o di risposta all’emergenza del problema ad una visione progettuale e di lungo termine: il progetto di vita. Quindi una professionalità che sappia non solo fornire prestazioni ma sia in grado di riconoscere la complessità della nostra missione ed occupare il proprio ruolo in un processo più ampio e complesso. Pensiamo che questa sia la condizione per l’avvio di quei processi partecipativi e condivisi che consentono la ricerca di strategie in grado di generare forme di collaborazione utili a promuovere inclusione sociale, una vita di qualità e il benessere collettivo.

Agire sul territorio, concretamente significa creare occasioni d’incontro, scambio, conoscenza, condivisione e dialogo in grado di coinvolgere le realtà del territorio attraverso proposte che sappiano creare le condizioni ideali per la costruzione di relazioni positive. Vuol dire promuovere occasioni di inclusione sociale e di sensibilizzazione attraverso la costruzione di reti informali che coinvolgano in progetti concreti e di varia natura semplici cittadini, istituzioni, scuole, oratori, centri giovanili e centri per anziani, la cooperazione sociale, associazioni, gruppi informali, biblioteche. Ponendo l’accento non solo sulla condizione di disagio ma sulla ricerca di un benessere comune, proponendo esperienze partecipative: dall’organizzazione di momenti d’intrattenimento e socializzanti alla realizzazione di progetti comuni dove ogni partecipante può sperimentarsi in un ruolo attivo.

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